Il moderno Prometeo; o Frankenstein?3 min di lettura

Quando sentiamo nominare “Frankenstein”, la prima cosa che ci passa per la mente è l’iconica immagine dell’attore Boris Karloff nell’omonimo film di James Whale del 1931, l’immagine di una creatura grottesca, rigida, spietata e particolarmente stupida.

Quello che forse dimentichiamo è che, quando Mary Shelley pubblicò l’opera nel 1818, il titolo completo non era semplicemente “Frankenstein”, c’era un sottotitolo che, sfortunatamente, nell’immaginario collettivo si è perso: “Frankenstein; o il moderno Prometeo”. Questo elemento mancante non è così scontato, perché all’interno di esso troviamo la sintesi dell’idea alla base dell’intero racconto. Frankenstein, lo scienziato sfuggito alla cultura di massa se non come riflesso della sua stessa creatura, è paragonato dall’autrice stessa alla figura mitologica di Prometeo, il Titano greco che, per il bene che provava nei confronti dell’umanità, decise di rubare il fuoco agli dei per darlo all’uomo, finendo per essere punito attraverso l’eterna sofferenza. Il personaggio del Dottor Frankenstein non è da meno: il racconto non è altro che la storia di un uomo mosso da uno spirito pienamente illuminista che, per amor della scienza e dell’umanità, finisce per mettersi nei panni di Dio senza fare i conti con la morale. Infatti, se Prometeo per il suo gesto viene punito dagli Dei, Frankenstein viene punito dalla sua creazione, dal suo fuoco o, meglio ancora, da un dio, se stesso.

Il romanzo critica i valori dell’Illuminismo, il senso di sicurezza nel raziocinio e nella ricerca, mettendo l’uomo di fronte alla realtà dei fatti. Questa illusione di sicurezza renderà vittima l’uomo della propria creazione, creazione che, nel romanzo, a differenza del fuoco di Prometeo, è viva, pensante, razionale, non un essere predisposto al male, anzi. Il demone (così chiamato per gran parte del romanzo) inizialmente si definisce predisposto al bene, all’amore, ma messo di fronte ad una società che venera la scoperta (nonostante l’immensa paura dell’ignoto), messo di fronte al fatto che il suo stesso creatore gli rivolge le spalle, finisce per diventare mostro.

Alla fine “Frankenstein” non è altro che un invito alla ricerca coscienziosa e alla critica del pensiero illuminista. Andando ancora più in profondità, tra le righe potremmo leggere nel romanzo anche un sottinteso femminista (non a caso Mary Shelley era figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, a cui viene attribuito il merito di aver fondato il femminismo liberale). In fondo non è la donna emancipata stessa la creatura che diventa vittima dei pregiudizi di una società che era (e che è) ipocritamente progressista?

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